martedì 14 aprile 2015

Sortirne insieme: Con>vergenze e il suo possibile significato politico


L’intervento di Adriano Gallina, in rappresentanza di Convergenze, al convegno “Partecipare è possibile”, organizzato dall’area civatiana del PD il 15 novembre 2014.

Non mi pare il caso, in questo contesto, di raccontare ancora una volta cos’è “Convergenze”. Ne abbiamo parlato a più riprese e sui nostri siti – e negli articoli apparsi all’indomani della nostra prima presentazione pubblica – il progetto è illustrato con dovizia di particolari.
Più interessante, mi pare, è cercare di cogliere quali siano le implicazioni politiche di Convergenze, anche in relazione al titolo della giornata, “Partecipare è possibile”.
Il Sen. Tocci evocava Don Milani e la sua limpida definizione della politica come tentativo di “Sortirne insieme”. Ecco, inizierei col dire proprio questo: Convergenze rappresenta, ha rappresentato sin dall’inizio, il tentativo di uscire insieme dall’angolo – economico, motivazionale, di considerazione politica – in cui alcune realtà culturali varesine si trovavano in questi “tempi del colera” del Welfare.
Uscirne insieme partendo da un dato empirico e da un dato di valore: per un verso la straordinaria opportunità finanziaria offerta dal bando di Fondazione Cariplo (oggi certamente l’unico attore/erogatore che in Regione Lombardia abbia e promuova una vera e propria politica culturale non concentrata su una mera distribuzione semi-casuale delle risorse) a cui abbiamo partecipato e che abbiamo vinto; dall’altro una consapevolezza: dalla crisi non si esce se non unendo le forze lungo una prospettiva di orizzontalità e condivisione. Una prospettiva finalizzata in primo luogo alla produzione comune di idee ma anche, e non secondariamente, ad una maggior efficacia dei modelli organizzativi ed imprenditoriali delle realtà culturali appartenenti al terzo settore.
E’ quello che abbiamo cercato di fare, e che stiamo facendo, in questi ormai quasi due anni di esperienza. Cercando di costruire un piccolo “modello”, le cui linee essenziali – per tornare al modesto insegnamento politico della nostra esperienza – si possono così riassumere:
  1. Nel suo strutturale carattere dialogico e dialettico, fondato appunto sull’orizzontalità e sull’impegno di valorizzare e promuovere le molte differenze che ci contraddistinguono (vocazionali, artistiche, politiche, anagrafiche…) nel tentativo di raggiungere, sempre, delle sintesi condivise.
  1. Nel suo essere fondato su quella che mi piace definire “la bella fatica della democrazia”: nel rifiuto, cioè, della decisione tranchant o di quelle che la psicologia clinica chiama “semplificazioni terribili” (che, cito di nuovo Tocci, di fronte al nodo di Gordio agiscono “con la spada”, negando attraverso l’azione la complessità del reale). “Faticosa”: perché necessariamente “lenta” e riflessiva, molto poco “smart” (come alcuni, anche dalle nostre parti, ritengono che dovrebbero essere le organizzazioni ed i partiti “moderni”); ma, lo ribadisco, anche bella: perché in grado – nel suo “lavorare con lentezza” – di giungere a sintesi più alte ed armoniche, che includano le differenze anziché porle al margine. Perché, in sintesi, promuove e pratica l’antica idea di democrazia come tentativo di ridurre al massimo grado possibile il tasso di insoddisfazione di ogni singolo membro di una collettività organizzata.
  1. Il che implica, sistematicamente, la pratica della negoziazione, della disponibilità permanente a mettersi in gioco e a compiere dei passi indietro; e soprattutto la comprensione che proprio nella proliferazione, espressione ed inclusione delle differenze è possibile che emergano, a tratti, lampi di idee nuove, scenari inizialmente imprevedibili, approcci trasversali ai problemi che ne facilitano (e rendono originali e nuove) le possibili soluzioni.
  1. Nel suo essere strutturato – già a monte della definizione degli accordi di partenariato – sul principio della ridistribuzione delle risorse, lungo un delicato equilibrio tra possibilità e bisogni (vi ricorda qualcosa?), fondato per un verso sulla considerazione realistica ed equa della “forza” (organizzativa ed economica) di ciascuno, contemperata però, in parallelo, da una altrettanto realistica ed equa promozione delle aree di debolezza.
  1. Nel suo essere, infine, basata su un sistema di governance che ha escluso a priori la produzione di ruoli interni cristallizzati e personalizzati, prevedendo di anno in anno l’alternanza delle singole associazioni (e dei loro rappresentanti) nel contesto degli organi direttivi della rete. Io, per esempio, saràò coordinatore di Convergenze solo fino al 31 agosto del 2015.
Capite certamente che – sia pure ovviamente nel contesto apparentemente “semplice” di un microcosmo – Convergenze descrive un modello partecipativo che, forse, qualche segnale alla politica lo può trasmettere. E infatti non è casuale che la nostra esperienza abbia raccolto e stia raccogliendo, da quel mondo, numerosi segnali di matrice diametralmente opposta: grande interesse, da parte di alcuni, e grandissima irritazione, da parte di altri, ma significativamente per le stesse ragioni.
  1. Perché – prosaicamente, ma in primo luogo – ha saputo intercettare, sulla sola base della qualità progettuale, ingenti risorse private che una inveterata consuetudine politica alla clientela ed alla lottizzazione (peraltro quasi sempre disattesa, storicamente, dalle scelte di Fondazione Cariplo) avrebbe voluto ben “targate” ed assegnate a precisi ambienti, soggetti o progetti politico-culturali. E voi capite benissimo che l’ARCI come capofila – da questo punto di vista e nonostante il suo ruolo sostanzialmente solo amministrativo – maldispone a priori.
  1. Perché Convergenze è un soggetto collettivo, che ha saputo nella pratica oltrepassare la dimensione degli steccati concorrenziali (e di vera e propria “questua”) tra attori culturali della città, a dispetto dell’antica litania (di origine politica) in base alla quale ciascuno di noi non faceva altro che “coltivare il proprio orticello” e che, proprio per questo, la città non riusciva a fare un salto di qualità. Ce l’hanno detto per anni e anni – quasi con un certo compiacimento – mascherando dietro l’invito palese a “fare rete” il fatto, banale, che un “vulgo disperso” e diviso è molto più conveniente e conforme ad una prassi di riconoscimenti (non solo economici) fondata sulla sostanziale discrezionalità del palazzo, sulle valutazioni di conformità agli orientamenti di parte, sulla totale “incertezza del diritto”. Ora la rete l’abbiamo fatta, e questo a molti non fa affatto piacere.
  1. Perché – proprio nella sua dimensione di rete – Convergenze indica alle future amministrazioni di questa ed altre città (ma anche, ci speriamo molto, alla nuova Amministrazione Provinciale) una possibile direzione, strutturalmente aggregata e multidisciplinare, per politiche culturali fondate sulla sussidiarietà, su un rapporto virtuoso tra EELL e forme associate e collettive di servizio, consulenza, gestione di attività e beni culturali.
  1. Perché, infine e tornando al titolo di questa giornata, Convergenze indica il possibile successo di pratiche politiche ed organizzative alternative, perché fondate in primo luogo sull’iniziativa dal basso e sull’auto-organizzazione anziché sulla spasmodica ed avvilente attesa di un principe illuminato, di un Godot o di un “Uomo della Provvidenza” (di qualsiasi parte, per quanto ci riguarda, perché le politiche culturali non sono mai state in cima alle agende politiche né della destra né della sinistra), che tanti danni hanno fatto – e, aggiungerei a titolo del tutto personale, stanno facendo – al nostro Paese.

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