mercoledì 29 giugno 2016

Qualche idea di politica culturale per Varese




“È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il nostro Paese, vedere le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano l’elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di stracci, e che importunano così i passanti. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da vivere, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro infelici bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados” (J. Swift, 1729).

E’ l’incipit del celebre, provocatorio, saggetto di Jonathan Swift, Una modesta proposta. Mi frulla per la testa da quando, sulle pagine di alcuni giornali online, si è avviato il dibattito sulle future politiche culturali dell’amministrazione comunale.
Chissà perché proprio questo brano?
Forse perché, compiendo un semplice esercizio mentale, quelle torme di mendicanti e quei figli vestiti di stracci ricordano sempre più gli operatori culturali alle prese con la pubblica amministrazione? Costretti – anziché a produrre arte e cultura (“guadagnarsi onestamente da vivere”) – a girovagare freneticamente per assessorati, uffici, tesorerie ad elemosinare qualche modesta regalìa pubblica, scampoli di riconoscimento (o anche solo un certificato di “esistenza in vita”), a rivendicare con il cappello teso un diritto. Anni fa, del resto, ce l'ha ricordato anche lo sciagurato ministro Bondi (che del resto è scomparso: sarà rimasto sepolto sotto qualche calcinaccio pompeiano?) che siamo tutti accattoni... Ultim'ora: il tizio è ricomparso! E (diomio!) pare che finisca nel PD...

Ecco: nelle pagine che seguono proverò anch’io a delineare “una modesta proposta” per un possibile ripensamento della cultura varesina.

Modesta: senza riferimenti più o meno propagandistici ad ipotetiche quanto inconsistenti “rivoluzioni culturali” e senza astratte petizioni di principio prive di connessioni con la reale, e grave, situazione della finanza pubblica; ma neppure, a contraltare, con lo spirito falsamente “realista” di chi vede nei continui tagli alla cultura una sorta di legge di natura, una forza di attrazione gravitazionale che ci spinge sempre più verso il basso.

Proposta:  mi interessa  poco, in questa sede, muovere considerazioni critiche (che ho già avuto, a più riprese, occasione di avanzare e rendere pubbliche) sulle politiche culturali che hanno caratterizzato la nostra città nel corso dell’ultimo ventennio. Mi interessa molto di più, invece, tentare di “buttar lì” qualche spunto costruttivo, nei limiti del possibile: sebbene sia naturale, ed evidente, che qualsiasi considerazione in positivo muova dall’implicita considerazione di un negativo, di un’assenza o di un’insufficienza. E’ dunque ovvio – per la mia storia, per le mie passioni politiche e culturali e per le mie speranze – che quanto scrivo sia indirizzato in primo luogo alle forze politiche che, sulla carta, rappresentano un possibile cambiamento, un’altra cultura possibile, un possibile nuovo corso. Sempre nell’ipotesi fiduciosa (ma troppo, troppo spesso smentita dai fatti) che, su quella carta, i programmi non vengano scritti con l’inchiostro simpatico…

Quel che credo interessante, però, è che le proposte che avanzo non sono, in sé, proposte “di sinistra”: il livello a cui si collocano – fatte salve alcune premesse fondative, di cui dirò tra poco – è infatti quello delle regole e della trasparenza, della qualificazione della spesa e della sua certezza, della progettazione culturale d’orizzonte e della creazione di sistemi stabili di sussidiarietà tra pubblico e terzo settore. Che poi la trasparenza procedurale rappresenti, oggi come oggi, un cambiamento straordinario è purtroppo ben altro paio di maniche. In sé, quindi, tali proposte non sono rivolte ad alcun partito e forse neppure ad alcuna “parte”.


1. Due premesse “di valore”

Per sgombrare il campo, nei paragrafi che seguiranno, dalla necessità di continui incisi, distinguo, specificazioni mi pare opportuno precisare da subito due premesse – queste sì politiche, quando non filosofiche e in qualsiasi caso decisamente (ed orgogliosamente) unilaterali – che rappresentano l’implicito sostrato teorico di tutto il ragionamento. Parranno forse banalità, ed infatti Gregory Bateson le avrebbe probabilmente chiamate ogni scolaretto sa che

a. La cultura non è assimilabile all’intrattenimento o al marketing territoriale.

La cultura di una città è come un’atmosfera, un ambiente, una vasca nella quale siamo permanentemente immersi e che può – o meno – essere densa di una pluralità di potenzialità di accesso ad occasioni di arricchimento. E’ qualcosa di molto simile all’istruzione, un’istanza formativa e pedagogica, un diritto civile ed un bene comune, che possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia, della poesia, dell'arte contemporanea o del teatro sperimentale, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

Un’idea di “cultura” che contiene in sé, anche nel suo etimo, l'idea di coltivazione, di semina in vista di un raccolto futuro, di crescita: lungo una visione multidimensionale dell’uomo e del cittadino secondo cui un ambiente caratterizzato dalle molte possibilità di formazione, dalle notevoli e diversificate risorse acculturanti, dalla pluralità degli stimoli cognitivi crea personalità e cittadini intelligenti, flessibili, in grado di operare nella contemporaneità con un repertorio di strumenti comportamentali e conoscitivi che incide drasticamente sulla qualità della vita ma anche sul PIL, sui tassi occupazionali, sull’imprenditorialità diffusa, sulla crescita complessiva di una comunità e della sua civiltà e fisionomia (per esempio lungo l'idea di capability della filosofia economica di Amartya Sen). Non c’è nulla di nuovo, in realtà. E’ la vecchia e sempre attuale convinzione di Dario Fo secondo cui “L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo è lui il padrone”.

Da questo punto di vista, l’idea di politica pubblica per la cultura implica la continua produzione ed il sostegno di valori essenzialmente formativi che, certo, possono intrattenere e, certo, possono essere attrattivi per il turismo: ma che vengono qualificati solo attraverso la necessaria inversione della triste relazione finalistica oggi dominante, secondo la quale le iniziative culturali vengono organizzate per intrattenere, per riempire il tempo libero o per attrarre i turisti. La cultura certamente intrattiene (come sostiene Mario Vargas Llosa, a volte anche faticosamente, in modo impegnativo) ma, altrettanto certamente, non è possibile sostenere, sic et simpliciter, il contrario. Questo, incidentalmente, dovrebbe a mio avviso implicare un drastico ridimensionamento delle funzioni e delle attività del cosiddetto assessorato al marketing territoriale: troppo spesso sovrapposto e concorrente, in una frenetica produzione di eventi ad alta visibilità (e spesso non corrispondente qualità), dell'assessorato alla cultura. Una totale assurdità sul piano economico, organizzativo, funzionale e in ultima analisi anche culturale.

La produzione culturale è in realtà un fine in sé, priva di qualsiasi vocazione ancillare; e in quest’ottica l’idea della cultura come servizio implica esclusivamente la produzione, proliferazione e diffusione di valori formativi e la tensione alla massima estensione possibile al godimento di quei valori.

b. Non esiste alcuna proporzionalità diretta o inversa tra la qualità del prodotto culturale ed il suo consumo

Ma tra servizio e valore si innesta una dicotomia tutt’altro che banale o di semplice soluzione: tanto più viene enfatizzata l’idea di servizio, infatti, quanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Come se, per fare un esempio, l’importanza della sanità pubblica fosse funzione semplice e misurabile della quantità effettiva di braccia ingessate e non, al contrario, della necessaria possibilità di curarsi. Dalla televisione all’editoria al teatro, così, la cultura di qualità è stata declinata lungo la prospettiva della quantità. E l’estensione massima della fruizione del prodotto culturale è stata tradotta nel principio del “gradimento”, dell'audience, secondo cui se la cultura non è goduta, se il suo valore d’uso non viene consumato è forse meglio, allora, ridurre le aspettative. Se servizio deve essere, allora deve essere la risposta ad una domanda attuale, la soddisfazione di quella domanda, il modellare qualsiasi offerta su quella domanda. Il servizio diviene valore in sé, determinando una sostanziale mortificazione dell’istanza culturale ma soprattutto dell’idea fondamentale di formazione del pubblico, in una semplificatoria visione del mondo a matrice neo-liberista, in base alla quale tanto più senso possiede un servizio quanto più questo, nel presente viene consumato, usato, in una filosofia che declina sempre più il cittadino nel suo ruolo esclusivo di utente e consumatore. E' il principio sulla base del quale proliferano i "Grandi Fratelli" e le "Isole dei famosi".

Intendiamoci: dall'estremismo giovanile dei miei primi anni di lavoro in campo culturale molta acqua è passata sotto i ponti, ed ora non credo più nella simmetria inversa tra notorietà e qualità. Non vale in entrambi i sensi: non è detto (quasi mai) che l'underground implichi una particolare qualità, così come non è vero che la coda al botteghino (e quindi la risposta commerciale) significhi che il prodotto culturale è scadente. Ovviamente, e forse più radicalmente, non vale però neppure il contrario, ed è fondamentale che il pubblico amministratore ne sia consapevole. Quel che differenzia i due approcci alla politica culturale non è infatti una sorta di inconciliabile fondamentalismo che divarica irrimediabilmente le "filosofie", quanto piuttosto il processo valutativo e decisionale ed il differente primato che viene attribuito alla scelta di qualità rispetto alla risposta commerciale.

Da cui la necessità di una riflessione, spesso da sinistra rifuggita con qualche imbarazzo, sull’antica querelle della dicotomia tra una cultura “alta”, che si vorrebbe strutturalmente élitaria, borghese, oligarchica ed una cultura popolare che si vorrebbe, all’opposto, “bassa”, di massa, a largo consumo. Shakespeare contro I Legnanesi, Kieslowski contro Vanzina. La mia persuasione, e lo confesso ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione progressista e di sinistra, è che il luogo della politica culturale pubblica è il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia la promozione ed il sostegno della cultura “alta” e delle politiche organizzative e formative volte alla possibilità di rendere questa cultura sempre più tendenzialmente diffusa e popolare. Per le ragioni già sostenute ma, ancor più incisivamente, perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato. Adottando la favola della volpe e l’uva, politica pubblica per la cultura significa operare per alzare la statura della volpe, non abbassare sempre più il pergolato.

Nell'ottica del primato della qualità e della scelta d'arte, la dimensione del servizio acquista dunque progressivamente la fisionomia di un’idea regolativa, i tratti di definizione di un diritto di accesso alla cultura di qualità. Non la definizione di un’attualità ma di una potenzialità. Del diritto comune al godimento di un valore.


2. Un’idea di politica culturale

Poste queste due lunghe ma necessarie premesse – che definiscono una filosofia possibile dell’approccio pubblico (di qualsiasi parte) alla cultura – si tratta ora di intendersi sul concetto di “politica culturale”. Credo infatti che sia rintracciabile proprio in questo nodo e nella sua declinazione pratica (ancor prima e ancor più che nella drammatica questione delle scarse risorse) la lacuna più significativa che ha caratterizzato la scena varesina sostanzialmente dal terremoto tangentopoli ad oggi.

Il termine mi pare sostanzialmente indicare una complessiva visione strategica, pluriennale e d’orizzonte, del possibile sviluppo e della vita culturale di una città; una capacità globale di leggerne, interpretarne e monitorarne costantemente i bisogni; una conoscenza diretta ed approfondita della qualità espressa dai suoi attori culturali e dal pubblico servizio che, sia pure in una dimensione privata, di fatto tali attori culturali assolvono; un’azione di sostegno a queste realtà – conseguente a tutto questo e compatibile con le risorse – che ne prefiguri una tendenziale stabilizzazione nel tempo fondata su un serio principio di sussidiarietà. Serio e non parassitario, come a tratti pare di scorgere al contrario nell’enfasi con cui, sempre più spesso, la pubblica amministrazione elogia la nobile dimensione del volontariato, letta per lo più in chiave di esternalizzazione e supplenza a costo zero per l’erogazione di servizi di competenza dello stato o delle amministrazioni locali. Tutto questo, naturalmente, non esclude la diretta gestione ed attività pubblica di servizi inespressi dall’azione privata o per i quali si valuti preferibile (sul piano qualitativo, economico, organizzativo, gestionale) un’azione pubblica priva di mediazioni (penso per esempio, ovviamente ed in primo luogo, alle biblioteche o ai musei, ma non solo).

Quanto detto – vorrei fosse molto chiaro – muove da tre assunti fondamentali e solo apparentemente contrastanti:

(a)    Per un verso, dal principio essenziale (che risale sostanzialmente alla seconda metà degli anni ’40, a Keynes e alla fondazione dell’Arts Council britannico) dell’autonomia e terzietà della cultura rispetto all’universo della politica: un modello che esclude, in termini di principio, censure, chiusure ed il ricorso più o meno implicito a criteri extraculturali (o “di appartenenza”) nella valutazione pubblica della qualità e del merito delle istituzioni e dei progetti culturali;

(b)   Dall’altro lato, e contemporaneamente, dalla necessità di questa valutazione stessa, che giocoforza si deve tradurre in qualche forma di scelta e selezione. Una necessità legata ad una semplice, e credo condivisibile, considerazione: l’eccessiva frammentazione della spesa in una miriade di piccoli e piccolissimi contributi, spesso predeterminati dall’amministrazione sulla base di residue disponibilità di cassa e pressoché del tutto privi di connessione con dati di natura quantitativa e qualitativa, mortifica i beneficiari, sostanzialmente scontenta tutti o quasi, precarizza in forma cronica qualsiasi attività, non ne garantisce la continuità e, in ultima analisi, dequalifica la spesa stessa, rendendola sostanzialmente del tutto irrazionale. Questa funzione è, io credo, un diritto ed un dovere della politica culturale.

(c)    Il terzo principio (una sorta di sintesi hegeliana?) interviene a risolvere la contraddizione, evidente, che intercorre tra i primi due. Si tratta del principio dell’interposta persona (o Arm’s lenght principle) tra potere politico e realtà culturali: un principio che traduce l’idea di terzietà nell’istituzione di un organismo intermedio – a carattere consultivo (ma il cui parere, sia pur non vincolante, sia tenuto in rilevante considerazione) – che sia costituito da un’ampia, democratica e composita rappresentanza dell’universo culturale cittadino (scuola, università, società civile, fondazioni bancarie, singoli cittadini di comprovata autorevolezza) a cui venga affidato il compito di esprimersi in ordine al sostegno da riconoscere a progetti e soggetti della cultura cittadina.[1]  
Tale organismo – giocoforza di nomina politica, ma i cui criteri di costruzione (che prevedano per esempio la rotazione periodica dei suoi componenti) e le cui forme di rappresentanza dovrebbero riflettere quantomeno una composizione plurale e ad ampio spettro – dovrebbe essere delegato ad operare compatibilmente con i vincoli di bilancio ma anche in una prospettiva strategica di sviluppo e stabilità del sistema culturale.

Le riunioni e le valutazioni di tale organismo, infine, sono pubbliche e pubblicamente motivate: per garantire la massima trasparenza dei criteri di giudizio qualitativi e quantitativi adottati e al contempo (vista la sua funzione esclusivamente consultiva) per evidenziare le consonanze o le dissonanze tra i pareri espressi in questa sede e le relative deliberazioni politiche.


3. La cultura cittadina tra “soggetti” e “progetti”

In quanto precede si è fatto riferimento a più riprese ad alcune idee fondative, che ora vorrei sviluppare un po’ più dettagliatamente: si tratta delle idee di orizzonte strategico della politica culturale, di sviluppo e di stabilizzazione.
Attualmente – e non si tratta certo di una specificità varesina – il modello del sostegno alle attività culturali muove lungo l’asse progetto/valutazione/[eventuale] finanziamento: gli attori culturali propongono, annualmente, dei progetti di attività che vengono sottoposti ad una valutazione politico-culturale-amministrativa che, in caso positivo, si conclude con la proposta ed approvazione in Giunta comunale. Testualmente (dagli obiettivi dell’Assessorato alla Cultura illustrati nei bilanci di previsione), viene realizzata una “collaborazione organizzativa, finanziaria e per alcuni versi anche scientifica, con altri soggetti, pubblici e privati e con l'associazionismo culturale, attuando insieme nuove iniziative o supportando quelle già organizzate, attraverso modalità definite di volta in volta”.

Si tratta di un modello che – almeno sulla carta – ha indiscutibilmente alcuni meriti: evita la creazione di rendite di posizione (o, come dicono alcuni, “caste”) cristallizzate; conserva la flessibilità della valutazione delle progettualità nel merito, consentendone una considerazione più puntuale; mantiene il controllo della spesa nel quadro dei bilanci comunali annuali senza ipotecare il futuro.

Al di là, però, della sostanziale opacità, già denunciata, relativa a questo iter di valutazione[2], quel che preme rilevare qui sono invece i molti inconvenienti – credo più pesanti dei meriti – che questa prassi necessariamente implica e determina. Quel che pare mancare in questo modello, infatti, è la capacità di “leggere” la città e la sua politica culturale non solo attraverso la considerazione “eventuale” (non è un caso che si tratti dell’aggettivo derivato dal termine “eventi”) delle proposte volta per volta recepite ma dalla considerazione dei suoi soggetti culturali stabili, la cui attività è ricorrente, storicizzata e caratterizzata dalla continuità, la cui progettualità non si esaurisce in singoli “eventi” o “cicli di eventi” ma in una multiforme e poliedrica attività che disegna l’habitat culturale della città in forma permanente: quegli organismi per i quali non è possibile seriamente “frammentare” la propria progettualità complessiva in sotto-segmenti perché quella progettualità complessiva e d’orizzonte ne definisce la fisionomia e la soggettività e ne descrive la globale funzione pubblica. La città è, cioè, caratterizzata dall’attività ricorrente e “attesa” di alcuni soggetti (ma di fatto anche di alcuni “progetti”) la cui reiterazione da alcuni anni identifica di fatto (pur senza esaurirla) la cultura cittadina: penso – senza completezza – al Liceo Musicale o al Teatro Apollonio, all’attività complessiva di Filmstudio90 e del Teatro Nuovo o alla Stagione Musicale Comunale, al Premio Chiara o al Teatro Santuccio, a Cortisonici e all’intera stagione estiva dei Festival (Solevoci, Gospel, Black&Blue…), senza dimenticare l’importantissimo Tra Sacro e Sacro Monte.

Li conosciamo per nome, ne conosciamo più o meno il periodo di svolgimento, le caratteristiche culturali, l’identità, le vocazioni: non si tratta più (o non solo) di progetti, ma di veri e propri soggetti – o addirittura istituzioni - della cultura cittadina.
Ora: io credo che una politica culturale lungimirante e d’orizzonte debba essere in grado, con coraggio, di individuare, scegliere, valorizzare e de-precarizzare i propri soggetti culturali stabili, includendoli nel quadro di prospettive di sostegno almeno triennali, che consentano loro (sul piano economico e organizzativo ma anche, banalmente, sul piano psicologico) percorsi di sviluppo di media-lunga durata, itinerari culturali pluriennali, visioni strategiche e di sistema.

E’ questa una scelta che ha compiuto da ormai quasi trent’anni, per esempio, il Comune di Milano, con lo straordinario sistema delle convenzioni teatrali: un sistema che – senza abdicare ad una sacrosanta funzione di controllo su griglie di valutazione quantitative e qualitative (ma senza entrare mai, al contempo, nel merito delle scelte artistiche di ciascun teatro) ha, anche in questi difficilissimi tempi e anche durante le amministrazioni di centro-destra, salvaguardato su base triennale la conservazione di un modello di pubblico servizio, conferendo qualche elemento di certezza non-congiunturale ai suoi teatri, soprattutto sottraendo in buona misura le progettualità di ciascuno alla discrezionalità della valutazione annuale e alla conseguente, inevitabile, incertezza e precarietà.

Tutto questo non esclude, ovviamente, la valutazione ed il finanziamento di singoli progetti proposti da qualsiasi altro attore culturale: ma entro un quadro dialettico, in cui la fisionomia della vita culturale cittadina si compone, in modo articolato, di “soggetti” al fianco di “progetti”, di “sistemi” al fianco di “eventi”, di appuntamenti ricorrenti affiancati da una ricca biodiversità culturale.


4. Verso un sistema culturale

Quel che credo emerga da quanto precede è una visione sottrattiva del ruolo dell’Ente Pubblico in campo culturale. L’assessorato alla cultura, in breve, non è, non può essere e non deve essere la “direzione artistica” di una città né un’organizzazione di eventi.

L’assessorato alla cultura dovrebbe invece essere, a mio avviso, il luogo della progettazione, coordinamento e regolazione di sistemi culturali, giocati sull’inclusione e sulla valorizzazione piena delle funzioni e delle qualità espresse dalla società civile; il luogo in cui vengano promosse e stimolate – e non solo astrattamente “caldeggiate” – pratiche orizzontali di aggregazione, processi co-organizzativi che oltrepassino nella pratica la dimensione degli steccati concorrenziali tra operatori culturali. Favorire concretamente progettualità comuni, spazi di cooperazione, modelli stabili di coordinamento ma al contempo favorire e promuovere le differenze, riconoscendo ruoli, vocazioni, funzioni alternative espresse dal territorio.[3]

In questo senso, credo che si possa dire che un assessorato alla cultura ha sostanzialmente (per quanto attiene, ovviamente, gli ambiti indiretti di intervento) un ruolo di meta-progettazione, di indirizzo, di agenzia di facilitazione. Un ruolo, cioè, di natura fortemente strategica, amministrativa ed organizzativa.

Un ruolo in cui, paradossalmente, la figura dell’assessore è tanto più politicamente significativa quanto più si sottrae dalle luci della ribalta dell’iniziativa autonoma per farsi essenzialmente costante portavoce e difensore (anche, e soprattutto, all’interno della propria maggioranza) di un principio di dignità, priorità e sostenibilità dell’investimento per la cultura come elemento essenziale – e non accessorio o residuale - della qualità della vita di una città.[4]

Avrei ancora molto da dire: sul teatro, in particolare. Ma, per ora, mi pare che possa decisamente bastare. 
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[1] Si tratta di quella che potremmo definire “forma debole” del principio: in realtà, per esempio nel modello anglosassone, è l’organismo intermedio (l’Arts Council, appunto) a ricevere direttamente dallo Stato i contributi destinati ad essere successivamente redistribuiti a vantaggio degli attori culturali sulla base di criteri normativi ed operativi stabiliti dallo Stato stesso. Stato che, tuttavia, non interviene minimamente nella fase di selezione, “limitandosi”, del tutto legittimamente, ad una valutazione annuale dei risultati conseguiti complessivamente dall’attività erogativa (e, nel caso specifico, di fundraising) dell’Arts Council.

[2] Si tratta di una sorta di black box: negli uffici dell’assessorato “entrano” proposte di progetti, solo alcune delle quali “escono” e finiscono in giunta, accompagnate o meno da ipotesi di sostegno finanziario la cui connessione oggettiva con i progetti stessi e con la loro consistenza economica e qualitativa rimane quantomeno dubbia e, in ogni caso, molto aleatoria.

[3] Da questo punto di vista, credo che l’esperienza di Con>vergenze (www.convergenzevarese.it) possa rappresentare un piccolo esempio – nato dal basso – di un processo che, se promosso, ampliato e sostenuto dalla pubblica amministrazione, avrebbe probabilmente potuto godere di contributi ancor più significativi e certamente di una dimensione maggiormente istituzionale. Un piccolo esempio: perché Con>vergenze è un soggetto collettivo, che ha saputo costruire concretamente una dimensione di condivisione (artistica, economica ed organizzativa), a dispetto dell’antica litania (di origine politica) in base alla quale ciascuno di noi non faceva altro che “coltivare il proprio orticello” e che, proprio per questo, la città non riusciva a fare un salto di qualità. Ce l’hanno detto per anni e anni - quasi con un certo compiacimento – mascherando dietro l’invito palese a “fare rete” il fatto, banale, che un “vulgo disperso” e diviso è molto più conveniente e conforme ad una prassi di riconoscimenti (non solo economici) fondata sulla sostanziale discrezionalità del palazzo, sulle valutazioni di conformità agli orientamenti di parte, sulla totale “incertezza del diritto”. Ora la rete l’abbiamo fatta, e questo a molti non fa affatto piacere. Per una riflessione complessiva su Con>vergenze e su un suo possibile significato politico: http://www.arciragtime.it/sortirne-insieme-convergenze-suo-possibile-significato-politico/

[4] Mi piace qui ricordare, a titolo di esempio, che lo storico assessore milanese alla cultura della Giunta Albertini, Salvatore Carrubba – un economista di formazione fortemente neoliberista, quindi difficilmente accusabile di simpatie assistenzialistiche – lungo tutto il corso del proprio mandato sostenne come un samurai giapponese una strenua e continua battaglia con la giunta di cui faceva parte per la tutela e salvaguardia della dotazione di bilancio conferita alla cultura, per la sua qualificazione, per la conservazione dei sistemi di eccellenza (primo tra tutti quello delle convenzioni teatrali) senza i quali la vita culturale milanese sarebbe, oggi, molto molto più povera.
Anche per quest’ultima ragione, nel quadro di un’idea di politica culturale come progettazione di sistemi culturali (più o meno formalizzati), l’assessorato alla cultura deve infine caratterizzarsi come luogo privilegiato per la ricerca ed il reperimento di ulteriori risorse da investire nelle attività: da una sistematica azione di raccordo con l’universo dell’impresa (che faccia leva, per esempio, sul principio della responsabilità sociale), alla partecipazione a bandi pubblici e privati; dalla co- progettazione con Regione e Provincia all’attivazione di campagne collettive di crowdfunding.

martedì 14 aprile 2015

Masterplan e teatro



Un'analisi dello "studio di fattibilità economico-finanziaria" del nuovo teatro di Varese(brani testuali rientrati e in colore).
Durante la lettura, per capire davvero, si consiglia di effettuare un semplice esercizio mentale: sostituite alla parola "teatro" la parola "scuola".

Costruiscono un teatro da 24,5 mln e 1500 posti. Un investimento che fa quasi interamente leva sulle risorse pubbliche:
Le stime dell’analisi di fattibiltà individuano in circa €24,5 milioni l’ammontare dell’investimento necessario per realizzare un nuovo teatro di dimensioni medio-grandi secondo gli standard del settore (circa 1500 posti a sedere); nei costi sono comprese le strutture e gli arredi interni. Il grosso di tale investimento è previsto a carico del settore pubblico (€17.580.000)
Poi ne chiedono solo 3 ad un privato e lo chiamano "project financing":
Il nuovo teatro è un’importante opera di interesse collettivo una delle più ambiziose operazioni culturali della storia della città su cui converge una rilevante dote di fondi pubblici nella fase di investimento. Per realizzare questa opera si prevede di fare ricorso al project financing: l’investitore privato diventa centrale soprattutto nella fase di gestione del teatro, con una conseguente sua assunzione di gran parte dei rischi legati all’attività operativa.
In uno schema di project financing il teatro può essere considerato una “opera tiepida” a condizione che ci sia un elevato contributo pubblico nella fase di costruzione. La possibilità di attirare operatori privati fa quindi leva su un rilevante investimento iniziale nella costruzione da parte del settore pubblico. Su un costo di costruzione stimato in €24 milioni, l’apporto dei privati nella società di progetto dello schema di project financing viene limitato a circa €3 milioni, il 12,5% del totale.
Il resto entra dal "libro dei sogni" delle vendite e degli oneri di urbanizzazione di via Ravasi.
Altri €4,1 milioni confluiranno verso il progetto del teatro come risorse pubbliche generate dallo sviluppo immobiliare di via Ravasi.
Un “libro dei sogni” che ruota essenzialmente (anche se lo negano) su una sottovalutazione del contesto di crisi dell’edilizia, su una sopravvalutazione del valore dell’area al mq e, infine, su una evidente perimetrazione socio-economica dei potenziali acquirenti alle fasce sociali medio-alte:
Le caratteristiche fisiche e localizzative del comparto permettono la realizzazione di residenze di elevata qualità. I prezzi considerati tengono conto di questo ma anche della difficoltà in cui versa il settore immobiliare: i valori prescelti prefigurano un miglioramento della situazione di mercato da qui a 23 anni e rispecchiano la possibilità che l’intervento assuma forme innovative sotto il profilo energetico e della domotica. Grazie alla qualità e alla localizzazione dell’intervento l’offerta delle nuove residenze si rivolge ad un ampio pubblico di potenziali acquirenti in grado di sostenere i prezzi di mercato indicati. In questo bacino esistono segmenti di popolazione che in prospettiva possono diventare importanti per una città come Varese: dal pubblico degli “over 65” con una capacità di reddito e patrimoniale medio alta

In relazione ai prezzi di vendita del terziario ci siamo mantenuti sui livelli massimi consentiti dal mercato, una ipotesi che ci sentiamo di mantenere data la “qualità del luogo” che scaturirà dal processo di riqualificazione. Il prezzo di vendita del commerciale rispecchia l’ipotesi la capacità di spesa di una parte dei flussi di persone che vivranno stabilmente nell’area, o che ci passeranno per motivi di svago o di lavoro, possa conciliarsi con un commercio di vicinato di qualità in grado di sostenere canoni di affitto (o prezzi di acquisto dell’immobile) da centro città.
Ma non solo: via Ravasi potrebbe interessare anche un costruttore che operi “in tandem” con il privato che si occuperà delle gestione privata (ma le due figure potrebbero coincidere):
L’ultimo passaggio ha riguardato una indagine sulla possibilità che operatori del settore della gestione dei teatri possano partecipare a bandi di project financing (con procedura a gara unica secondo art.153, c3, d.lgs.163/06) per rilevare la gestione del teatro, assumendosi quindi una parte rilevante dei rischi operativi, ma entrando con una quota, da mantenere relativamente bassa, anche nell’investimento iniziale. Inoltre il loro ingresso in una società di progetto potrebbe avvenire in tandem con un operatore immobiliare che non si limiterebbe a costruire il teatro: il bando di gara può infatti prevedere che a tale operatore possa essere concesso anche lo sviluppo di un’area con capacità edificatoria nello stesso comparto in cui sorge il teatro. Tale area, come già anticipato, è stata identificata con il comparto di via Ravasi.
Fatto tutto questo, al privato regalano le chiavi del giocattolino, molto probabilmente sopravvalutandone le potenzialità economiche:  
La gestione privata del teatro è parametrata su un conto economico con entrate a partire da circa €1 milione nei primi anni di operatività ed in crescita nel corso dei 30 anni di gestione (costi operativi a partire da circa €500.000). Ci aspettiamo che dimensioni e caratteristiche del nuovo teatro possano consentire al gestore performance con tassi crescita delle entrate migliori di quelli stimati nel modello (possono aumentare i costi di gestione ma aumentano più che proporzionalmente le entrate). In conclusione un teatro delle dimensioni indicate potrebbe sfruttare al meglio le “tendenze di mercato” del settore delle performing art e in particolare la redditività dei grandi spettacoli dal vivo.
E, forse proprio per questo, continueranno a riconoscergli 230.000 euro all'anno.
Il fatto che il teatro attuale in regime di gestione privata abbia potuto continuare ad operare dipende certamente dai contributi comunali erogati ogni anno (nella misura di circa € 230.000 all’anno negli ultimi anni). Ma è anche un segnale che, con la possibilità di incrementare le entrate, e soprattutto la redditività dell’attività del teatro, un operatore specializzato nel settore potrebbe trovare una convenienza economica a rilevare la gestione del nuovo stabile

Si stima che il teatro possa raggiungere una sostenibilità economica in fase di gestione in cui il contributo pubblico (da parte del Comune di Varese) rimanga fermo negli anni a quota €230.000 e arrivi a rappresentare una quota secondaria delle sue entrate (il 25/30% dei ricavi a scendere negli anni).
E, a fronte di questo, la “macchina” viene “messa a disposizione della gestione privata” per farne, sostanzialmente, quel che vuole
Verrebbe realizzata e messa a disposizione della gestione privata una “macchina” che, per dimensioni e qualità, offre l’opportunità di catturare una fetta importante delle entrate da biglietteria attraverso una percentuale degli introiti dagli spettacoli. La dimensione del teatro favorisce infatti accordi tra gestore teatro e gestore spettacoli (che possono anche coincidere) basati sul revenue sharing, più favorevoli rispetto ai ricavi generati da forfait. 
 …dal momento che, in campo culturale, la “mano invisibile” ha un solo nome: audience (variamente declinato come “mercato”, “botteghino”, “chiamata”, “cassetta”…)
Questa opportunità diventa importante per i grandi spettacoli in grado di “fare esaurito” nelle giornate di programmazione. L’obiettivo inserito nel modello è di circa 25 giornate di esaurito all’anno. Gli spettacoli “costosi” vengono in tal modo concentrati in meno giorni ottenendo una migliore gestione economica rispetto ad un teatro con meno posti (che richiederebbe più giornate di esaurito per ottenere un analogo importo di entrate da vendita biglietti). In conclusione un teatro delle dimensioni indicate potrebbe sfruttare al meglio le “tendenze di mercato” del settore delle performing art e in particolare la redditività dei grandi spettacoli dal vivo.
E perché necessariamente un privato? Per il consueto luogo comune della “probabile migliore performance di gestione” ma, più significativamente, anche per il “trasferimento del rischio domanda” rispetto alla gestione pubblica:
In generale il ricorso al project financing permetterebbe di affidare ai privati la costruzione (con un trasferimento a loro carico dei rischi di sviluppo) e la gestione del teatro (con una probabile migliore performance di gestione ed un trasferimento del rischio domanda rispetto allo scenario, tipico di molti teatri comunali in Italia, di una gestione pubblica della fase operativa)
Verso la fine della parte relativa al teatro, lo studio affronta la possibilità di forme di fund raising, naturalmente sopravvalutate
A nostro avviso è possibile generare risorse addizionali per la realizzazione del nuovo teatro rispetto a quelle previste nell’AdP. Un fundraising mirato tra esponenti del mondo imprenditoriale delle professioni di Varese e provincia può rappresentare un punto di partenza e può, se avviato per tempo, generare fondi extra dell’ordine di €1,5 milioni
Aggiungendo che
Sarebbe opportuno che questi attori del mondo privato si riunissero in un gruppo unico, sotto forma per esempio di associazione o fondazione, in cui far convergere i propri fondi.
Senza escludere il crowdfunding
Per quel che riguarda una eventuale operazione di crowdfunding o azionariato popolare, essa potrebbe essere stimolata dalle istituzioni, ma per definizione dovrebbe nascere da una spinta dal basso. Un progetto capace di trasmettere emozioni e visione potrebbe favorire un processo di questo tipo. Se questa raccolta fondi “diffusa” partisse e producesse un certo ammontare di risorse, si potrebbe pensare di offrire a rappresentanti di questo gruppo di azionariato “cittadino” una voce all’interno della società di progetto e/o all’interno dell’organizzazione responsabile dell’attività operativa del teatro. Rimane ovviamente da definire sia il tipo di influenza che questo gruppo potrebbe esercitare.
Finora, praticamente, a proposito di quest’ultimo punto hanno parlato solo, in sostanza e con grande originalità, di una ottocentesca “vendita delle poltrone”, cosicché privati possano essere sia il palco sia la platea.

E infine  con un inspiegabile sussulto freudiano di rammemorazione rispetto al “senso” del teatro, l’estensore dello studio di fattibilità si lascia scappare, “buttandolo lì”:
Il ruolo di una associazione o fondazione che controlla le risorse da fundraising non dovrebbe essere quello di partecipare agli utili di gestione del teatro, quanto piuttosto quello di esprimere una visione sul ruolo e la mission di una istituzione culturale che di fatto appartiene alla città.
Un riferimento alla mission e alla “visione” che ci sconcerta non poco, dopo quanto illustrato. Uno sconcerto che si attenua subito, tuttavia, nel renderci conto che questa possibilità di espressione ed indirizzo è – ancora una volta – privata e riservata, sic et simpliciter, a chi “caccia i soldi”.

Fin qui lo "studio".

Quindi: un privato costruisce; un privato gestisce; dei privati – se pagano qualcosa – indirizzano le linee culturali del teatro; dei privati – se pagano – possono comprarsi le poltroncine.

Nemmeno una parola, in tutto questo, sul senso culturale dell'operazione. Tutti concentrati sul contenitore, non si è minimamente affrontato il nodo dei contenuti.

Eppure i contenuti non hanno a che vedere solo con l'adeguatezza dell'edificio: hanno a che fare soprattutto con un'idea di teatro che oltrepassa la dimensione - francamente un po' elementare - del servizio per  porsi alcuni problemi di fondo.

Il teatro è essenzialmente cultura, non (o non solo) intrattenimento e gestione del tempo libero. E' sì servizio, ma è pubblico servizio: finalizzato soprattutto alla crescita civile e culturale dei cittadini, alla loro promozione, ad un'istanza anche complessivamente formativa. Come, per fare un esempio comprensibile a tutti, dovrebbe essere la RAI (la cui scadente qualità, tutta giocata sull'audience, è al contrario davanti agli occhi di tutti).

Il teatro é, per esempio, la grande tradizione della Prosa d'autore, che si è progressivamente "asciugata" dalle  stagioni (o si è convertita nella forma del teatro "leggero"), a causa di una scelta originaria: quella di ridurre sempre più lo sguardo pubblico sulle scelte di cartellone per delegare in toto al gestore privato (che, ovviamente e legittimamente, aspira primariamente agli incassi) qualsiasi linea di programmazione.

Vogliamo che Varese continui ad essere sostanzialmente l'unico capoluogo lombardo in cui lo sguardo pubblico è totalmente assente dalle politiche teatrali?
Pavia, Brescia, Cremona, persino Lodi...
Oppure  pensiamo a Bergamo: una città che ha sì 130.000 abitanti ma che, in un teatro di 1150 posti, riesce a programmare 6 giornate solo di prosa con 6 turni di abbonamento per quasi 60 repliche complessive (a cui si aggiungono il cartellone "Altri Percorsi", che qui è morto (o è stato assassinato), e la gestione pubblica di un secondo teatro di 600 posti...).

Di fronte a questi numeri qualche domanda me la pongo:  perché ci siamo mai chiesti quanti - dei moltissimi abbonati delle stagioni di Prosa "storiche" del Cinema Impero - si sono, anche a causa di queste scelte, orientati verso Milano (o semplicemente hanno deciso di non abbonarsi più)? Sarebbe interessante confrontare i numeri degli anni 80 e 90 con quelli di oggi. Allora, e anche nelle prime stagioni all’Apollonio, la Prosa a Varese contava tre turni di abbonamento e 2.500 abbonati. E oggi?

Dove sono finiti quegli spettatori? Esiste anche a Varese, là fuori, un pubblico "colto" scomparso, che una volta andava all'impero a vedere Giorgio Gaber o Umberto Orsini e che, ora, ha deciso di guardare da un'altra parte? Al Piccolo, all'Elfo, al Franco Parenti?
Di che tipo di teatro stiamo parlando, quindi?

E perché – con il pretesto dell’indennizzo forfetario per l’impiego del teatro – in questi anni il Comune ha versato annualmente 230.000 € (che le giornate a disposizione venissero usate o meno), senza alcun tipo di controllo pubblico sulla programmazione, sulla sua qualità, sulla sua funzione culturale? Il nodo è tutto qui, non nel contributo (che, in sé, è solo sacrosanto).

Ma lì c’era almeno l’investimento iniziale, pressoché totale, di un costruttore che si è poi fatto carico della gestione. Ora, invece, l'accordo di programma e le sue linee economiche implicano - né più né meno - che ad un privato verrà sostanzialmente quasi regalato un teatro in cui potrà fare  praticamente quel che vuole, senza alcuna indicazione sugli indirizzi, sulla funzione, sul ruolo del teatro nella e per la comunità.  

E, anche in questo caso, di quale privato stiamo parlando? Di un costruttore? Di un impresario? O, per esempio, di un sistema di sussidiarietà gestionale con le realtà dell'associazionismo varesino? Nessuna risposta e per ora questo è il nitido quadro, non caricaturato, dell'intera operazione relativa al teatro di cui si parla dal dopoguerra.

Denaro pubblico senza un vero servizio e contenuto pubblico. Denaro investito nell'edificazione di un "monumento elettorale" il cui unico scopo è sostanzialmente solo il prolungamento dell'agonia di un ventennio che ormai, invece, vorrei credere giunto al capolinea.

Sortirne insieme: Con>vergenze e il suo possibile significato politico


L’intervento di Adriano Gallina, in rappresentanza di Convergenze, al convegno “Partecipare è possibile”, organizzato dall’area civatiana del PD il 15 novembre 2014.

Non mi pare il caso, in questo contesto, di raccontare ancora una volta cos’è “Convergenze”. Ne abbiamo parlato a più riprese e sui nostri siti – e negli articoli apparsi all’indomani della nostra prima presentazione pubblica – il progetto è illustrato con dovizia di particolari.
Più interessante, mi pare, è cercare di cogliere quali siano le implicazioni politiche di Convergenze, anche in relazione al titolo della giornata, “Partecipare è possibile”.
Il Sen. Tocci evocava Don Milani e la sua limpida definizione della politica come tentativo di “Sortirne insieme”. Ecco, inizierei col dire proprio questo: Convergenze rappresenta, ha rappresentato sin dall’inizio, il tentativo di uscire insieme dall’angolo – economico, motivazionale, di considerazione politica – in cui alcune realtà culturali varesine si trovavano in questi “tempi del colera” del Welfare.
Uscirne insieme partendo da un dato empirico e da un dato di valore: per un verso la straordinaria opportunità finanziaria offerta dal bando di Fondazione Cariplo (oggi certamente l’unico attore/erogatore che in Regione Lombardia abbia e promuova una vera e propria politica culturale non concentrata su una mera distribuzione semi-casuale delle risorse) a cui abbiamo partecipato e che abbiamo vinto; dall’altro una consapevolezza: dalla crisi non si esce se non unendo le forze lungo una prospettiva di orizzontalità e condivisione. Una prospettiva finalizzata in primo luogo alla produzione comune di idee ma anche, e non secondariamente, ad una maggior efficacia dei modelli organizzativi ed imprenditoriali delle realtà culturali appartenenti al terzo settore.
E’ quello che abbiamo cercato di fare, e che stiamo facendo, in questi ormai quasi due anni di esperienza. Cercando di costruire un piccolo “modello”, le cui linee essenziali – per tornare al modesto insegnamento politico della nostra esperienza – si possono così riassumere:
  1. Nel suo strutturale carattere dialogico e dialettico, fondato appunto sull’orizzontalità e sull’impegno di valorizzare e promuovere le molte differenze che ci contraddistinguono (vocazionali, artistiche, politiche, anagrafiche…) nel tentativo di raggiungere, sempre, delle sintesi condivise.
  1. Nel suo essere fondato su quella che mi piace definire “la bella fatica della democrazia”: nel rifiuto, cioè, della decisione tranchant o di quelle che la psicologia clinica chiama “semplificazioni terribili” (che, cito di nuovo Tocci, di fronte al nodo di Gordio agiscono “con la spada”, negando attraverso l’azione la complessità del reale). “Faticosa”: perché necessariamente “lenta” e riflessiva, molto poco “smart” (come alcuni, anche dalle nostre parti, ritengono che dovrebbero essere le organizzazioni ed i partiti “moderni”); ma, lo ribadisco, anche bella: perché in grado – nel suo “lavorare con lentezza” – di giungere a sintesi più alte ed armoniche, che includano le differenze anziché porle al margine. Perché, in sintesi, promuove e pratica l’antica idea di democrazia come tentativo di ridurre al massimo grado possibile il tasso di insoddisfazione di ogni singolo membro di una collettività organizzata.
  1. Il che implica, sistematicamente, la pratica della negoziazione, della disponibilità permanente a mettersi in gioco e a compiere dei passi indietro; e soprattutto la comprensione che proprio nella proliferazione, espressione ed inclusione delle differenze è possibile che emergano, a tratti, lampi di idee nuove, scenari inizialmente imprevedibili, approcci trasversali ai problemi che ne facilitano (e rendono originali e nuove) le possibili soluzioni.
  1. Nel suo essere strutturato – già a monte della definizione degli accordi di partenariato – sul principio della ridistribuzione delle risorse, lungo un delicato equilibrio tra possibilità e bisogni (vi ricorda qualcosa?), fondato per un verso sulla considerazione realistica ed equa della “forza” (organizzativa ed economica) di ciascuno, contemperata però, in parallelo, da una altrettanto realistica ed equa promozione delle aree di debolezza.
  1. Nel suo essere, infine, basata su un sistema di governance che ha escluso a priori la produzione di ruoli interni cristallizzati e personalizzati, prevedendo di anno in anno l’alternanza delle singole associazioni (e dei loro rappresentanti) nel contesto degli organi direttivi della rete. Io, per esempio, saràò coordinatore di Convergenze solo fino al 31 agosto del 2015.
Capite certamente che – sia pure ovviamente nel contesto apparentemente “semplice” di un microcosmo – Convergenze descrive un modello partecipativo che, forse, qualche segnale alla politica lo può trasmettere. E infatti non è casuale che la nostra esperienza abbia raccolto e stia raccogliendo, da quel mondo, numerosi segnali di matrice diametralmente opposta: grande interesse, da parte di alcuni, e grandissima irritazione, da parte di altri, ma significativamente per le stesse ragioni.
  1. Perché – prosaicamente, ma in primo luogo – ha saputo intercettare, sulla sola base della qualità progettuale, ingenti risorse private che una inveterata consuetudine politica alla clientela ed alla lottizzazione (peraltro quasi sempre disattesa, storicamente, dalle scelte di Fondazione Cariplo) avrebbe voluto ben “targate” ed assegnate a precisi ambienti, soggetti o progetti politico-culturali. E voi capite benissimo che l’ARCI come capofila – da questo punto di vista e nonostante il suo ruolo sostanzialmente solo amministrativo – maldispone a priori.
  1. Perché Convergenze è un soggetto collettivo, che ha saputo nella pratica oltrepassare la dimensione degli steccati concorrenziali (e di vera e propria “questua”) tra attori culturali della città, a dispetto dell’antica litania (di origine politica) in base alla quale ciascuno di noi non faceva altro che “coltivare il proprio orticello” e che, proprio per questo, la città non riusciva a fare un salto di qualità. Ce l’hanno detto per anni e anni – quasi con un certo compiacimento – mascherando dietro l’invito palese a “fare rete” il fatto, banale, che un “vulgo disperso” e diviso è molto più conveniente e conforme ad una prassi di riconoscimenti (non solo economici) fondata sulla sostanziale discrezionalità del palazzo, sulle valutazioni di conformità agli orientamenti di parte, sulla totale “incertezza del diritto”. Ora la rete l’abbiamo fatta, e questo a molti non fa affatto piacere.
  1. Perché – proprio nella sua dimensione di rete – Convergenze indica alle future amministrazioni di questa ed altre città (ma anche, ci speriamo molto, alla nuova Amministrazione Provinciale) una possibile direzione, strutturalmente aggregata e multidisciplinare, per politiche culturali fondate sulla sussidiarietà, su un rapporto virtuoso tra EELL e forme associate e collettive di servizio, consulenza, gestione di attività e beni culturali.
  1. Perché, infine e tornando al titolo di questa giornata, Convergenze indica il possibile successo di pratiche politiche ed organizzative alternative, perché fondate in primo luogo sull’iniziativa dal basso e sull’auto-organizzazione anziché sulla spasmodica ed avvilente attesa di un principe illuminato, di un Godot o di un “Uomo della Provvidenza” (di qualsiasi parte, per quanto ci riguarda, perché le politiche culturali non sono mai state in cima alle agende politiche né della destra né della sinistra), che tanti danni hanno fatto – e, aggiungerei a titolo del tutto personale, stanno facendo – al nostro Paese.

lunedì 13 aprile 2015

Qualche idea di politica culturale per Varese



“È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il nostro Paese, vedere le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano l’elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di stracci, e che importunano così i passanti. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da vivere, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro infelici bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados” (J. Swift, 1729).

E’ l’incipit del celebre, provocatorio, saggetto di Jonathan Swift, Una modesta proposta. Mi frulla per la testa da quando, sulle pagine di alcuni giornali online, si è avviato il dibattito sulle future politiche culturali dell’amministrazione comunale.
Chissà perché proprio questo brano?
Forse perché, compiendo un semplice esercizio mentale, quelle torme di mendicanti e quei figli vestiti di stracci ricordano sempre più gli operatori culturali alle prese con la pubblica amministrazione? Costretti – anziché a produrre arte a cultura (“guadagnarsi onestamente da vivere”) – a girovagare freneticamente per assessorati, uffici, tesorerie ad elemosinare qualche modesta regalìa pubblica, scampoli di riconoscimento (o anche solo un certificato di “esistenza in vita”), a rivendicare con il cappello teso un diritto. Anni fa, del resto, ce l'ha ricordato anche lo sciagurato ministro Bondi (che del resto è scomparso: sarà rimasto sepolto sotto qualche calcinaccio pompeiano?) che siamo tutti accattoni... Ultim'ora: il tizio è ricomparso! E (diomio!) pare che finisca nel PD...

Ecco: nelle pagine che seguono proverò anch’io a delineare “una modesta proposta” per un possibile ripensamento della cultura varesina.

Modesta: senza riferimenti più o meno propagandistici ad ipotetiche quanto inconsistenti “rivoluzioni culturali” e senza astratte petizioni di principio prive di connessioni con la reale, e grave, situazione della finanza pubblica; ma neppure, a contraltare, con lo spirito falsamente “realista” di chi vede nei continui tagli alla cultura una sorta di legge di natura, una forza di attrazione gravitazionale che ci spinge sempre più verso il basso.

Proposta:  mi interessa  poco, in questa sede, muovere considerazioni critiche (che ho già avuto, a più riprese, occasione di avanzare e rendere pubbliche) sulle politiche culturali che hanno caratterizzato la nostra città nel corso dell’ultimo ventennio. Mi interessa molto di più, invece, tentare di “buttar lì” qualche spunto costruttivo, nei limiti del possibile: sebbene sia naturale, ed evidente, che qualsiasi considerazione in positivo muova dall’implicita considerazione di un negativo, di un’assenza o di un’insufficienza. E’ dunque ovvio – per la mia storia, per le mie passioni politiche e culturali e per le mie speranze – che quanto scrivo sia indirizzato in primo luogo alle forze politiche che, sulla carta, rappresentano un possibile cambiamento, un’altra cultura possibile, un possibile nuovo corso. Sempre nell’ipotesi fiduciosa (ma troppo, troppo spesso smentita dai fatti) che, su quella carta, i programmi non vengano scritti con l’inchiostro simpatico…

Quel che credo interessante, però, è che le proposte che avanzo non sono, in sé, proposte “di sinistra”: il livello a cui si collocano – fatte salve alcune premesse fondative, di cui dirò tra poco – è infatti quello delle regole e della trasparenza, della qualificazione della spesa e della sua certezza, della progettazione culturale d’orizzonte e della creazione di sistemi stabili di sussidiarietà tra pubblico e terzo settore. Che poi la trasparenza procedurale rappresenti, oggi come oggi, un cambiamento straordinario è purtroppo ben altro paio di maniche. In sé, quindi, tali proposte non sono rivolte ad alcun partito e forse neppure ad alcuna “parte”.


1. Due premesse “di valore”

Per sgombrare il campo, nei paragrafi che seguiranno, dalla necessità di continui incisi, distinguo, specificazioni mi pare opportuno precisare da subito due premesse – queste sì politiche, quando non filosofiche e in qualsiasi caso decisamente (ed orgogliosamente) unilaterali – che rappresentano l’implicito sostrato teorico di tutto il ragionamento. Parranno forse banalità, ed infatti Gregory Bateson le avrebbe probabilmente chiamate ogni scolaretto sa che

a. La cultura non è assimilabile all’intrattenimento o al marketing territoriale.

La cultura di una città è come un’atmosfera, un ambiente, una vasca nella quale siamo permanentemente immersi e che può – o meno – essere densa di una pluralità di potenzialità di accesso ad occasioni di arricchimento. E’ qualcosa di molto simile all’istruzione, un’istanza formativa e pedagogica, un diritto civile ed un bene comune, che possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia, della poesia, dell'arte contemporanea o del teatro sperimentale, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

Un’idea di “cultura” che contiene in sé, anche nel suo etimo, l'idea di coltivazione, di semina in vista di un raccolto futuro, di crescita: lungo una visione multidimensionale dell’uomo e del cittadino secondo cui un ambiente caratterizzato dalle molte possibilità di formazione, dalle notevoli e diversificate risorse acculturanti, dalla pluralità degli stimoli cognitivi crea personalità e cittadini intelligenti, flessibili, in grado di operare nella contemporaneità con un repertorio di strumenti comportamentali e conoscitivi che incide drasticamente sulla qualità della vita ma anche sul PIL, sui tassi occupazionali, sull’imprenditorialità diffusa, sulla crescita complessiva di una comunità e della sua civiltà e fisionomia (per esempio lungo l'idea di capability della filosofia economica di Amartya Sen). Non c’è nulla di nuovo, in realtà. E’ la vecchia e sempre attuale convinzione di Dario Fo secondo cui “L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo è lui il padrone”.

Da questo punto di vista, l’idea di politica pubblica per la cultura implica la continua produzione ed il sostegno di valori essenzialmente formativi che, certo, possono intrattenere e, certo, possono essere attrattivi per il turismo: ma che vengono qualificati solo attraverso la necessaria inversione della triste relazione finalistica oggi dominante, secondo la quale le iniziative culturali vengono organizzate per intrattenere, per riempire il tempo libero o per attrarre i turisti. La cultura certamente intrattiene (come sostiene Mario Vargas Llosa, a volte anche faticosamente, in modo impegnativo) ma, altrettanto certamente, non è possibile sostenere, sic et simpliciter, il contrario. Questo, incidentalmente, dovrebbe a mio avviso implicare un drastico ridimensionamento delle funzioni e delle attività del cosiddetto assessorato al marketing territoriale: troppo spesso sovrapposto e concorrente, in una frenetica produzione di eventi ad alta visibilità (e spesso non corrispondente qualità), dell'assessorato alla cultura. Una totale assurdità sul piano economico, organizzativo, funzionale e in ultima analisi anche culturale.

La produzione culturale è in realtà un fine in sé, priva di qualsiasi vocazione ancillare; e in quest’ottica l’idea della cultura come servizio implica esclusivamente la produzione, proliferazione e diffusione di valori formativi e la tensione alla massima estensione possibile al godimento di quei valori.

b. Non esiste alcuna proporzionalità diretta o inversa tra la qualità del prodotto culturale ed il suo consumo

Ma tra servizio e valore si innesta una dicotomia tutt’altro che banale o di semplice soluzione: tanto più viene enfatizzata l’idea di servizio, infatti, quanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Come se, per fare un esempio, l’importanza della sanità pubblica fosse funzione semplice e misurabile della quantità effettiva di braccia ingessate e non, al contrario, della necessaria possibilità di curarsi. Dalla televisione all’editoria al teatro, così, la cultura di qualità è stata declinata lungo la prospettiva della quantità. E l’estensione massima della fruizione del prodotto culturale è stata tradotta nel principio del “gradimento”, dell'audience, secondo cui se la cultura non è goduta, se il suo valore d’uso non viene consumato è forse meglio, allora, ridurre le aspettative. Se servizio deve essere, allora deve essere la risposta ad una domanda attuale, la soddisfazione di quella domanda, il modellare qualsiasi offerta su quella domanda. Il servizio diviene valore in sé, determinando una sostanziale mortificazione dell’istanza culturale ma soprattutto dell’idea fondamentale di formazione del pubblico, in una semplificatoria visione del mondo a matrice neo-liberista, in base alla quale tanto più senso possiede un servizio quanto più questo, nel presente viene consumato, usato, in una filosofia che declina sempre più il cittadino nel suo ruolo esclusivo di utente e consumatore. E' il principio sulla base del quale proliferano i "Grandi Fratelli" e le "Isole dei famosi".

Intendiamoci: dall'estremismo giovanile dei miei primi anni di lavoro in campo culturale molta acqua è passata sotto i ponti, ed ora non credo più nella simmetria inversa tra notorietà e qualità. Non vale in entrambi i sensi: non è detto (quasi mai) che l'underground implichi una particolare qualità, così come non è vero che la coda al botteghino (e quindi la risposta commerciale) significhi che lo spettacolo è scadente. Ovviamente, e forse più radicalmente, non vale però neppure il contrario, ed è fondamentale che il pubblico amministratore ne sia consapevole. Quel che differenzia i due approcci alla politica culturale non è infatti una sorta di inconciliabile fondamentalismo che divarica irrimediabilmente le "filosofie", quanto piuttosto il processo valutativo e decisionale ed il differente primato che viene attribuito alla scelta di qualità rispetto alla risposta commerciale.

Da cui la necessità di una riflessione, spesso da sinistra rifuggita con qualche imbarazzo, sull’antica querelle della dicotomia tra una cultura “alta”, che si vorrebbe strutturalmente élitaria, borghese, oligarchica ed una cultura popolare che si vorrebbe, all’opposto, “bassa”, di massa, a largo consumo. Shakespeare contro I Legnanesi, Kieslowski contro Vanzina. La mia persuasione, e lo confesso ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione progressista e di sinistra, è che il luogo della politica culturale pubblica è il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia la promozione ed il sostegno della cultura “alta” e delle politiche organizzative e formative volte alla possibilità di rendere questa cultura sempre più tendenzialmente diffusa e popolare. Per le ragioni già sostenute ma, ancor più incisivamente, perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato. Adottando la favola della volpe e l’uva, politica pubblica per la cultura significa operare per alzare la statura della volpe, non abbassare sempre più il pergolato.

Nell'ottica del primato della qualità e della scelta d'arte, la dimensione del servizio acquista dunque progressivamente la fisionomia di un’idea regolativa, i tratti di definizione di un diritto di accesso alla cultura di qualità. Non la definizione di un’attualità ma di una potenzialità. Del diritto comune al godimento di un valore.


2. Un’idea di politica culturale

Poste queste due lunghe ma necessarie premesse – che definiscono una filosofia possibile dell’approccio pubblico (di qualsiasi parte) alla cultura – si tratta ora di intendersi sul concetto di “politica culturale”. Credo infatti che sia rintracciabile proprio in questo nodo e nella sua declinazione pratica (ancor prima e ancor più che nella drammatica questione delle scarse risorse) la lacuna più significativa che ha caratterizzato la scena varesina sostanzialmente dal terremoto tangentopoli ad oggi.

Il termine mi pare sostanzialmente indicare una complessiva visione strategica, pluriennale e d’orizzonte, del possibile sviluppo e della vita culturale di una città; una capacità globale di leggerne, interpretarne e monitorarne costantemente i bisogni; una conoscenza diretta ed approfondita della qualità espressa dai suoi attori culturali e dal pubblico servizio che, sia pure in una dimensione privata, di fatto tali attori culturali assolvono; un’azione di sostegno a queste realtà – conseguente a tutto questo e compatibile con le risorse – che ne prefiguri una tendenziale stabilizzazione nel tempo fondata su un serio principio di sussidiarietà. Serio e non parassitario, come a tratti pare di scorgere al contrario nell’enfasi con cui, sempre più spesso, la pubblica amministrazione elogia la nobile dimensione del volontariato, letta per lo più in chiave di esternalizzazione e supplenza a costo zero per l’erogazione di servizi di competenza dello stato o delle amministrazioni locali. Tutto questo, naturalmente, non esclude la diretta gestione ed attività pubblica di servizi inespressi dall’azione privata o per i quali si valuti preferibile (sul piano qualitativo, economico, organizzativo, gestionale) un’azione pubblica priva di mediazioni (penso per esempio, ovviamente ed in primo luogo, alle biblioteche o ai musei, ma non solo).

Quanto detto – vorrei fosse molto chiaro – muove da tre assunti fondamentali e solo apparentemente contrastanti:

(a)    Per un verso, dal principio essenziale (che risale sostanzialmente alla seconda metà degli anni ’40, a Keynes e alla fondazione dell’Arts Council britannico) dell’autonomia e terzietà della cultura rispetto all’universo della politica: un modello che esclude, in termini di principio, censure, chiusure ed il ricorso più o meno implicito a criteri extraculturali (o “di appartenenza”) nella valutazione pubblica della qualità e del merito delle istituzioni e dei progetti culturali;

(b)   Dall’altro lato, e contemporaneamente, dalla necessità di questa valutazione stessa, che giocoforza si deve tradurre in qualche forma di scelta e selezione. Una necessità legata ad una semplice, e credo condivisibile, considerazione: l’eccessiva frammentazione della spesa in una miriade di piccoli e piccolissimi contributi, spesso predeterminati dall’amministrazione sulla base di residue disponibilità di cassa e pressoché del tutto privi di connessione con dati di natura quantitativa e qualitativa, mortifica i beneficiari, sostanzialmente scontenta tutti o quasi, precarizza in forma cronica qualsiasi attività, non ne garantisce la continuità e, in ultima analisi, dequalifica la spesa stessa, rendendola sostanzialmente del tutto irrazionale. Questa funzione è, io credo, un diritto ed un dovere della politica culturale.

(c)    Il terzo principio (una sorta di sintesi hegeliana?) interviene a risolvere la contraddizione, evidente, che intercorre tra i primi due. Si tratta del principio dell’interposta persona (o Arm’s lenght principle) tra potere politico e realtà culturali: un principio che traduce l’idea di terzietà nell’istituzione di un organismo intermedio – a carattere consultivo (ma il cui parere, sia pur non vincolante, sia tenuto in rilevante considerazione) – che sia costituito da un’ampia, democratica e composita rappresentanza dell’universo culturale cittadino (scuola, università, società civile, fondazioni bancarie, singoli cittadini di comprovata autorevolezza) a cui venga affidato il compito di esprimersi in ordine al sostegno da riconoscere a progetti e soggetti della cultura cittadina.[1]  
Tale organismo – giocoforza di nomina politica, ma i cui criteri di costruzione (che prevedano per esempio la rotazione periodica dei suoi componenti) e le cui forme di rappresentanza dovrebbero riflettere quantomeno una composizione plurale e ad ampio spettro – dovrebbe essere delegato ad operare compatibilmente con i vincoli di bilancio ma anche in una prospettiva strategica di sviluppo e stabilità del sistema culturale.

Le riunioni e le valutazioni di tale organismo, infine, sono pubbliche e pubblicamente motivate: per garantire la massima trasparenza dei criteri di giudizio qualitativi e quantitativi adottati e al contempo (vista la sua funzione esclusivamente consultiva) per evidenziare le consonanze o le dissonanze tra i pareri espressi in questa sede e le relative deliberazioni politiche.


3. La cultura cittadina tra “soggetti” e “progetti”

In quanto precede si è fatto riferimento a più riprese ad alcune idee fondative, che ora vorrei sviluppare un po’ più dettagliatamente: si tratta delle idee di orizzonte strategico della politica culturale, di sviluppo e di stabilizzazione.
Attualmente – e non si tratta certo di una specificità varesina – il modello del sostegno alle attività culturali muove lungo l’asse progetto/valutazione/[eventuale] finanziamento: gli attori culturali propongono, annualmente, dei progetti di attività che vengono sottoposti ad una valutazione politico-culturale-amministrativa che, in caso positivo, si conclude con la proposta ed approvazione in Giunta comunale. Testualmente (dagli obiettivi dell’Assessorato alla Cultura illustrati nei bilanci di previsione), viene realizzata una “collaborazione organizzativa, finanziaria e per alcuni versi anche scientifica, con altri soggetti, pubblici e privati e con l'associazionismo culturale, attuando insieme nuove iniziative o supportando quelle già organizzate, attraverso modalità definite di volta in volta”.

Si tratta di un modello che – almeno sulla carta – ha indiscutibilmente alcuni meriti: evita la creazione di rendite di posizione (o, come dicono alcuni, “caste”) cristallizzate; conserva la flessibilità della valutazione delle progettualità nel merito, consentendone una considerazione più puntuale; mantiene il controllo della spesa nel quadro dei bilanci comunali annuali senza ipotecare il futuro.

Al di là, però, della sostanziale opacità, già denunciata, relativa a questo iter di valutazione[2], quel che preme rilevare qui sono invece i molti inconvenienti – credo più pesanti dei meriti – che questa prassi necessariamente implica e determina. Quel che pare mancare in questo modello, infatti, è la capacità di “leggere” la città e la sua politica culturale non solo attraverso la considerazione “eventuale” (non è un caso che si tratti dell’aggettivo derivato dal termine “eventi”) delle proposte volta per volta recepite ma dalla considerazione dei suoi soggetti culturali stabili, la cui attività è ricorrente, storicizzata e caratterizzata dalla continuità, la cui progettualità non si esaurisce in singoli “eventi” o “cicli di eventi” ma in una multiforme e poliedrica attività che disegna l’habitat culturale della città in forma permanente: quegli organismi per i quali non è possibile seriamente “frammentare” la propria progettualità complessiva in sotto-segmenti perché quella progettualità complessiva e d’orizzonte ne definisce la fisionomia e la soggettività e ne descrive la globale funzione pubblica. La città è, cioè, caratterizzata dall’attività ricorrente e “attesa” di alcuni soggetti (ma di fatto anche di alcuni “progetti”) la cui reiterazione da alcuni anni identifica di fatto (pur senza esaurirla) la cultura cittadina: penso – senza completezza – al Liceo Musicale o al Teatro Apollonio, all’attività complessiva di Filmstudio90 e del Teatro Nuovo o alla Stagione Musicale Comunale, al Premio Chiara o al Teatro Santuccio, a Cortisonici e all’intera stagione estiva dei Festival (Solevoci, Gospel, Black&Blue…), senza dimenticare l’importantissimo Tra Sacro e Sacro Monte.

Li conosciamo per nome, ne conosciamo più o meno il periodo di svolgimento, le caratteristiche culturali, l’identità, le vocazioni: non si tratta più (o non solo) di progetti, ma di veri e propri soggetti – o addirittura istituzioni - della cultura cittadina.
Ora: io credo che una politica culturale lungimirante e d’orizzonte debba essere in grado, con coraggio, di individuare, scegliere, valorizzare e de-precarizzare i propri soggetti culturali stabili, includendoli nel quadro di prospettive di sostegno almeno triennali, che consentano loro (sul piano economico e organizzativo ma anche, banalmente, sul piano psicologico) percorsi di sviluppo di media-lunga durata, itinerari culturali pluriennali, visioni strategiche e di sistema.

E’ questa una scelta che ha compiuto da ormai quasi trent’anni, per esempio, il Comune di Milano, con lo straordinario sistema delle convenzioni teatrali: un sistema che – senza abdicare ad una sacrosanta funzione di controllo su griglie di valutazione quantitative e qualitative (ma senza entrare mai, al contempo, nel merito delle scelte artistiche di ciascun teatro) ha, anche in questi difficilissimi tempi e anche durante le amministrazioni di centro-destra, salvaguardato su base triennale la conservazione di un modello di pubblico servizio, conferendo qualche elemento di certezza non-congiunturale ai suoi teatri, soprattutto sottraendo in buona misura le progettualità di ciascuno alla discrezionalità della valutazione annuale e alla conseguente, inevitabile, incertezza e precarietà.

Tutto questo non esclude, ovviamente, la valutazione ed il finanziamento di singoli progetti proposti da qualsiasi altro attore culturale: ma entro un quadro dialettico, in cui la fisionomia della vita culturale cittadina si compone, in modo articolato, di “soggetti” al fianco di “progetti”, di “sistemi” al fianco di “eventi”, di appuntamenti ricorrenti affiancati da una ricca biodiversità culturale.


4. Verso un sistema culturale

Quel che credo emerga da quanto precede è una visione sottrattiva del ruolo dell’Ente Pubblico in campo culturale. L’assessorato alla cultura, in breve, non è, non può essere e non deve essere la “direzione artistica” di una città né un’organizzazione di eventi.

L’assessorato alla cultura dovrebbe invece essere, a mio avviso, il luogo della progettazione, coordinamento e regolazione di sistemi culturali, giocati sull’inclusione e sulla valorizzazione piena delle funzioni e delle qualità espresse dalla società civile; il luogo in cui vengano promosse e stimolate – e non solo astrattamente “caldeggiate” – pratiche orizzontali di aggregazione, processi co-organizzativi che oltrepassino nella pratica la dimensione degli steccati concorrenziali tra operatori culturali. Favorire concretamente progettualità comuni, spazi di cooperazione, modelli stabili di coordinamento ma al contempo favorire e promuovere le differenze, riconoscendo ruoli, vocazioni, funzioni alternative espresse dal territorio.[3]

In questo senso, credo che si possa dire che un assessorato alla cultura ha sostanzialmente (per quanto attiene, ovviamente, gli ambiti indiretti di intervento) un ruolo di meta-progettazione, di indirizzo, di agenzia di facilitazione. Un ruolo, cioè, di natura fortemente strategica, amministrativa ed organizzativa.

Un ruolo in cui, paradossalmente, la figura dell’assessore è tanto più politicamente significativa quanto più si sottrae dalle luci della ribalta dell’iniziativa autonoma per farsi essenzialmente costante portavoce e difensore (anche, e soprattutto, all’interno della propria maggioranza) di un principio di dignità, priorità e sostenibilità dell’investimento per la cultura come elemento essenziale – e non accessorio o residuale - della qualità della vita di una città.[4]

Avrei ancora molto da dire: sul teatro, in particolare. Ma, per ora, mi pare che possa decisamente bastare. 
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[1] Si tratta di quella che potremmo definire “forma debole” del principio: in realtà, per esempio nel modello anglosassone, è l’organismo intermedio (l’Arts Council, appunto) a ricevere direttamente dallo Stato i contributi destinati ad essere successivamente redistribuiti a vantaggio degli attori culturali sulla base di criteri normativi ed operativi stabiliti dallo Stato stesso. Stato che, tuttavia, non interviene minimamente nella fase di selezione, “limitandosi”, del tutto legittimamente, ad una valutazione annuale dei risultati conseguiti complessivamente dall’attività erogativa (e, nel caso specifico, di fundraising) dell’Arts Council.

[2] Si tratta di una sorta di black box: negli uffici dell’assessorato “entrano” proposte di progetti, solo alcune delle quali “escono” e finiscono in giunta, accompagnate o meno da ipotesi di sostegno finanziario la cui connessione oggettiva con i progetti stessi e con la loro consistenza economica e qualitativa rimane quantomeno dubbia e, in ogni caso, molto aleatoria.

[3] Da questo punto di vista, credo che l’esperienza di Con>vergenze (www.convergenzevarese.it) possa rappresentare un piccolo esempio – nato dal basso – di un processo che, se promosso, ampliato e sostenuto dalla pubblica amministrazione, avrebbe probabilmente potuto godere di contributi ancor più significativi e certamente di una dimensione maggiormente istituzionale. Un piccolo esempio: perché Con>vergenze è un soggetto collettivo, che ha saputo costruire concretamente una dimensione di condivisione (artistica, economica ed organizzativa), a dispetto dell’antica litania (di origine politica) in base alla quale ciascuno di noi non faceva altro che “coltivare il proprio orticello” e che, proprio per questo, la città non riusciva a fare un salto di qualità. Ce l’hanno detto per anni e anni - quasi con un certo compiacimento – mascherando dietro l’invito palese a “fare rete” il fatto, banale, che un “vulgo disperso” e diviso è molto più conveniente e conforme ad una prassi di riconoscimenti (non solo economici) fondata sulla sostanziale discrezionalità del palazzo, sulle valutazioni di conformità agli orientamenti di parte, sulla totale “incertezza del diritto”. Ora la rete l’abbiamo fatta, e questo a molti non fa affatto piacere. Per una riflessione complessiva su Con>vergenze e su un suo possibile significato politico: http://adriano-gallina.blogspot.it/2015/04/sortirne-insieme-convergenze-e-il-suo.html

[4] Mi piace qui ricordare, a titolo di esempio, che lo storico assessore milanese alla cultura della Giunta Albertini, Salvatore Carrubba – un economista di formazione fortemente neoliberista, quindi difficilmente accusabile di simpatie assistenzialistiche – lungo tutto il corso del proprio mandato sostenne come un samurai giapponese una strenua e continua battaglia con la giunta di cui faceva parte per la tutela e salvaguardia della dotazione di bilancio conferita alla cultura, per la sua qualificazione, per la conservazione dei sistemi di eccellenza (primo tra tutti quello delle convenzioni teatrali) senza i quali la vita culturale milanese sarebbe, oggi, molto molto più povera.
Anche per quest’ultima ragione, nel quadro di un’idea di politica culturale come progettazione di sistemi culturali (più o meno formalizzati), l’assessorato alla cultura deve infine caratterizzarsi come luogo privilegiato per la ricerca ed il reperimento di ulteriori risorse da investire nelle attività: da una sistematica azione di raccordo con l’universo dell’impresa (che faccia leva, per esempio, sul principio della responsabilità sociale), alla partecipazione a bandi pubblici e privati; dalla co- progettazione con Regione e Provincia all’attivazione di campagne collettive di crowdfunding.